Quand’è stata l’ultima volta che mi sono sentito in gabbia, in prigione, impotente? Ieri, ancora, di nuovo. Situazioni che mi stanno strette, mi sento bloccato, non riesco a muovermi, una sensazione di cui ho ricordo addirittura da bambino molto piccolo. Oggi nonostante gli sforzi mi sento ancor di più anche impotente e limitato nei movimenti. Nelle relazioni che mi sono trovato e talvolta cercato ho avuto spesso questa situazione. Inizialmente fuggivo pensando che il chiodo scacciasse il simile. Cadevo in un ripensamento iniziale che deteriorava fino al sentirmi obbligato e non capivo il motivo. Spesso pensavo se sarebbe stato “per sempre” o se avessi concepito di diventare padre insieme alla partner di quel momento e mi sentivo stringere. Ma non è l’unica dinamica e nemmeno l’ultima o la prima. 

Da bambino mia madre ci chiudeva in casa e alle finestre c’erano anche le sbarre. Altra cella. Mangiare nervosamente, e il televisore che mi mostrava queste belle doppiette con il cornetto algida in mano, instillavano in me quel desiderio di avere un amore forse come mancanza o via d’uscita, ma non amandomi a dovere quando ne ho avuti sono sempre voluto fuggire. Oggi questo lavoro che amo mi imprigiona in debiti che stanno inesorabilmente crescendo, come una stanza che si restringe fino al soffocarmi. Qualcuno mi teneva fermo da bambino perché fossi sgridato per una marachella, ricordo il buio quando mio zio ragazzino ed io bambino di 10 anni di meno, e lui giocava a bloccarmi con il suo peso impedendomi di muovermi. Non so in quale occasione per cui a pochissimi anni hanno dovuto mettermi una camicia di forza. All’asilo veniva un’ora pomeridiana in cui, anche se era estate, facevano il buio perché dovevamo dormire, un momento scioccante a quell’età. A 8 anni il reumatismo articolare acuto mi ha tenuto prima immobilizzato dal dolore e poi bloccato in ospedale per un mese, osservando il vai e vieni di altri bambini, di un reparto infantile che contemplava svariate malattie o incidenti. A 10 anni il collegio ha sancito in circa un anno una differente prigionia, per cui al pomeriggio fuggivo verso la chiesa dal prete per servire messa, e ricevere da lui una mancia di 500 lire che non avrei mai avuto la possibilità di spendere, solo per evadere dall’ignoranza oppressiva delle suore. Ma già prima, a circa 6 anni, il passaggio dalla casa dei nonni alla nuova famiglia che non avevo scelta di rifiutare, ha segnato fortemente il domani che avrei vissuto. Ho avuto una relazione che per i 19 anni in cui è durata, mi ha insegnato davvero tanto, fino ad allontanarmi nel modo peggiore che si potesse, sia per scelta di tempo che di modo. Ma dentro di me sentivo ancora una gabbia che aveva iniziato a stringersi da molto tempo, e solo per colpa della mia ignavia e della mancanza di coraggio l’ho fatta diventare tale. Nell’inevitabile e lungo periodo in cui era impossibile separarsi, per innumerevoli motivi anche lavorativi, ho vissuto una condizione che mi portava a desiderare di morire piuttosto che vivere in quel modo, riuscendoci quasi, con una quotidiana e sana colazione a base di Rum.

Le poche volte che sono fuggito da una situazione per un’altra hanno sempre evidenziato la stessa cosa, lo stesso fine, la stessa prigionia. Ma questa gabbia, inizia ancora prima, ancora prima di quando mia madre mi ha tenuto nascosto nella pancia per non farlo sapere alla sua stessa madre.

Un sogno emblematico, abbastanza recente, mi mostrava in altro luogo e probabilmente con differente aspetto, ma sempre in una casa così piccola come quella in cui mi hanno portato quando avevo sei anni, in cui vi erano proprio loro che oggi conosco come mia mamma e il suo compagno mio padre adottivo, ed io mi preparavo perché sapevo che dovevo ritornare in prigione. La cosa più sconvolgente è proprio quel “ritornare”, nella sua ricorsività onirica rivela la ciclicità di quella dinamica, di quel vissuto.

Nel simbolismo orientale, la cella è un luogo in cui il monaco aveva la possibilità di riflettere, di fare silenzio, di andare in introspezione e meditare. Non era affatto una punizione ma un’esclusiva opportunità. Questo è quello su cui sto riflettendo e cercando di operare, perché non nego che ognuna di queste esperienze di prigionia mi abbia arricchito notevolmente. In ognuna di queste vite, che ogni volta cambiavano, vedevo altri luoghi, altre persone, nuove situazioni, cose che altrimenti non avrei potuto inserire nel bagaglio di conoscenze di cui mi sento così ricco oggi. Desiderare l’uscita da quella prigione non fa che allontanare il ritrovarne la chiave della serratura. Quelle chiavi che non ero in grado di ottenere perché irresponsabile, e di cui oggi sono così pieno, chiavi di molte case, nessuna mia. Inoltre il nucleo energetico di questa sofferenza deriva sicuramente da un operato oscuro che il karma mi ha messo nell’esperienza atavica, e che in seguito potrei avere o non avere scontato o pagato, come il debito karmico che recentemente ho appurato di avere nei confronti di alcune anime oggi parallele. E ancora, il cambiamento deve coinvolgere il “come”, diversamente da il “cosa”, per cui una volta effettuato saprò anche cosa devo fare. Il tutto condito da un sincero e profondo ringraziamento, che se veicolato correttamente nel nucleo energetico può davvero risanare e guarire. La fiamma deve essere accesa dalla scintilla dell’onestà, della quale il mio giudizio mi ritiene molto carente. Ma ci stiamo lavorando, e modestia a parte, se voglio imparo molto velocemente.

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