Quando comunichiamo, a parole, in maniera diretta, non con social o altri mezzi di raccordo, spesso non arriva a destinazione il concetto.
Il più delle volte siamo noi a non esprimerci bene, e già questo sottintende un lavoro approfondito nell’ascoltarsi quando si parla, nel provare eventualmente a scrivere quello che si dice, per capire come ci esprimiamo. A volte basterebbe riascoltare i messaggi vocali che mandiamo, per condannarci a morte sia grammaticalmente che umanamente. Certo è che, se per caso invece abbiamo prestato attenzione al periodo pronunciato, soggetto-verbo-complemento, asciutto o esteso, ma grammaticalmente fine, semiologicamente giusto, allora vuol dire che non sempre di là le orecchie sono accese. Accese e collegate. Già qualche articolo più in là avevo descritto il concetto del dare per scontato, concetto per cui qualcosa che viene detto non ha valore perché dall’altra parte il giudizio ha già deciso noi chi siamo e cosa facciamo, figurarsi ciò che si sta esprimendo.
Ammetto alcuni vincoli legati a età estreme, infanzia o vecchiaia, stati alterati di coscienza o salute, gravi mancanze (per cui parlare con i matti è una colpa nel pretendere), per il resto vale sempre l’impegno sull’attenzione e l’assenza di giudizio.

E più che mai devo ammettere che “chi tace acconsente”. L’educato silenzio del lasciare perdere, sfocia nel nulla, qualcosa di mai accaduto, quindi azzerato. L’educazione che rema contro insomma. Chi tace forse si è stufato di tirare le famose ”quattro madonne” di fronte alla bestemmia morale che ascolta o che dovrebbe controbattere. A volte si parla con qualcuno che (beato lui) sa già perché stai dicendo qualcosa, o quali sono i tuoi ritmi o addirittura come sei, fosse un eco che ti anticipa, ma non è corretto, e in quel momento preferiresti parlare al muro o stare in silenzio. Ecco perché il silenzio è così importante. Se taci corri il rischio di confermare, confermare la pretesa del ciò che hai avallato come scontato.

Parlare con il prossimo senza giudicare, astenendosi dal chiedere, cosa per cui riesci a non farti chiedere nulla, assume la sembianza del coglione. Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te, pensavo di vedere cartelloni con questo comandamento positivo, ma non è così. Ho sognato tutto. D’altronde la Cazzata Globale che circonda il mondo in questo momento, dovrebbe avermi insegnato a non sbagliare di nuovo su queste banalità. Anche perché di banalità si tratta, e una banalità trascurata diventa una rottura gonfiandosi.

La colpa anche in questo caso non è all’esterno, e perdonandosi e ringraziandosi, dopo essersi scusati e dispiaciuti, si fanno i conti internamente in maniera rigorosa.
Si sbaglia, mille volte al minuto, chiaro, per mille e più motivi, compreso il fatto di lasciare sottintendere, lasciarti giudicare o identificare, non fare il guastafeste, pensare (e questa è la più bella) che quando dici una cosa, questa rimanga. Poi arrivano degli input, per cui capisci che ciò che avevi detto come chiaro e limpido, è stato dimenticato. E lasciar passare è un errore capitale.

Il senso di colpa è un messaggero. La missiva che ti porta recita “hai l’opportunità di vederlo e di fare meglio la prossima volta”.
Nel frattempo però non andartela a cercare…

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