Un nonsoché di inevitabile si appoggia sulle mie gambe e sussurra ciò che non vorrei sentire. Un grande dolore condito da una piccola sferzata di sollievo impiatta la pietanza di ciò che raccontavo ultimamente.
Dolore, stupore, e malinconia, accompagnano in questo periodo le falde di questa corrente così risalente, al punto di risorgere e medicare ogni precedente equivoco.
Aspetterò il prossimo passaggio della cometa in questione per comprendere ciò che ho ritardato e ciò che ho disatteso, il mio sport preferito, a quanto pare. Già, perché se io muovo un piede in una direzione o in un altra puntualmente disattendo diverse aspettative. Eppure le mie sono spesso in secondo piano. Ma questo non è ne importante quanto determinante al momento.
Sono diventato padre senza esserlo proprio nel momento in cui ne ero definitivamente fuori. Eppure nonostante il mio sentire, nel recente passato ho avuto il preludio della cosa. Le mie bambine, figlie di mia sorella, così come il figlio dell’altra mia sorella, sono come figli miei. Ed esattamente come quando mi chiedevano se avessi figli o ne volessi, ho sempre risposto nascondendo la mia paura di essere padre, nascosta dall’inadeguatezza che sentivo, affermando che prima o poi i figli delle mie sorelle li avrei ereditati. Ed in un certo senso è stato così.

Portare quelle mie bambine in quei collegi in cui io stesso sono stato per me è stato un trauma non paragonabile al loro stato d’animo, di cui ancora oggi, in questo preciso momento non riesco ad attendere o concepire il reale stato d’animo, rispettabile, ma amaro e triste. Sentire la mia bambina di 13 anni affranta e desiderosa di chiedere scusa alla sua nonna, mia madre, per il suo essere stata “una stronza”, per me è già abbastanza, a livello di passione e intercessione del dolore. Quel dolore di cui sento solo l’odore o lontanamente il sapore, che oggi loro karmicamente devono affrontare lo svolgersi, l’evento, la dinamica, quella vita che cambia sotto le mani anche se non vuoi. Quella vita incerta era comunque la loro vita, sebbene appesa, ma il rapportarsi ad una nuova realtà porta dolore e incertezza.
Dal “canto mio” non posso di certo cantare. Canto e piango giornalmente per il succedersi di quasivoglia tipologia di sofferenza, ma avverto la mia come importante. Ascoltavo già a 4 o 5 anni un album di Claudio Baglioni, e proprio nei giorni scorsi e avvertivo la mia sofferenza infantile ed adulta cambiare nelle parole di una canzone in particolare. La vita come una telecronaca calcistica. Un testo esempio per me di ogni pensiero espresso in questi 50 anni ma soprattutto come riferimento per ciò che sono in grado di scrivere sperando di esprimere ciò che ho dentro. Qualcosa che mi ha segnato già a quell’età nei sentimenti, nel dolore, e nell’osservazione di qualcosa che era di fronte a me e forse non sarei stato in grado di vedere. Non l’avrei mai visto o percepito se non avessi ascoltato quelle parole.
“…la ragazza e il suo amore
che le muore tra le braccia
raccoglie un pezzo di dolore
e ci si taglia il cuore…”

Questo testo può voler dire tante cose, inevitabilmente, ma a buon intenditor, poche parole.
Perdere un amore come un figlio, secondo ciò che intendo io, è qualcosa di lacerante proprio come quello che sto vivendo io, come ho vissuto, come ciò che vengo incolpato di non vivere. Sono pronto a pagare, come già avvenuto. Nel frattempo sto imparando tanto, parecchio, e sto vivendo ciò che il mio karma mi sta insegnando, nelle dinamiche e nelle coincidenze che mi insegnano ciò che ero, e per cui oggi non ho prettamente predisposizione, ma solo simpatiche e curiose sincronie, affabili quanto ricorsive attitudini.
Poi ho modo di rivedere quella bambina di 13 anni, che ammette la sua resa, nel descriversi più tranquilla dopo meno di tre settimane, come “rassegnata”, iniziando a provare a vivere quella nuova realtà. Sorridendo anche. La stessa rassegnazione che ha accompagnato varie fasi apatiche della mia vita e che tutt’ora osservo intorno e dentro di me.
Sinonimo della cosa è la rinuncia. Rinunciare a ciò che meriti vibrando in modo da ottenere l’esatto contrario. Ed è ciò che ho capito questa mattina in un confronto cullato dalla dolcezza di una persona che era stata messa lì proprio per farmelo vedere. E cioè meccanicamente lo faccio, ed emotivamente ci provo abbastanza bene, rimane da effettuare l’azione energetica finale, quella che può cambiare le cose definitivamente. Anche perché sembra che io sia in continuo deficit, il mio corpo biologicamente per salvarsi sta buttando via i denti, per il contrasto che vivo nel mio senso di colpa, di inadeguatezza, per l’en plein di ferite mai risanate sebbene cosciente della loro esistenza e gravità. Il senso di impotenza per non essere in grado di portare l’aiuto a chi è in difficoltà ed è vicino a me, lo stesso stato d’animo perenne per la condizione lavorativa che non produce profitto come potrebbe, per evitare di dire peggio.

In un certo senso sono stato programmato per compiacere e per non portare danno. Due autentiche chimere utopiche, con cui sono in lotta da sempre. Energeticamente porto la sciagura del non meritare, di conseguenza non ricevo. Un assurdo senso del dovere verso qualcosa che, figlio di un buonismo, mi fa carico di tutto, vedendolo marcire o peggiorare. Proprio le parole di quelle canzoni, come un’altra ad esempio, Un treno per dove, in cui anche io sono alla ricerca di un luogo in cui recarmi, un posto in cui
…gli uccelli tagliano l’autunno e l’aria non si rompe in uno sparo
dove nessuno è un’isola e l’anima non si incarta nel denaro,
dove la paura non passa più nei nostri occhi di conigli,…
…un treno per dove non arrivi il vento di follia che gela il cuore, e che ci trascina via,…
dove le ombre corte dei bambini non si fermano in un pianto,
lasciate indietro dalla fretta degli adulti,
dove tutti sono persone ognuno sogno ed un pensiero suo soltanto,
e un uomo non si piega con le botte e con gli insulti,…
…Un treno per dove non ci sia lo spazio per perderti di più,
un treno per dove esisti Tu.

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