La riconoscenza è un dato, che il bisogno implica nella soluzione della sua funzione. Cavia dell’esperimento della mancanza o dell’abbondanza. Quel “dono di niente”, a sorpresa, è forse quello che colma un vaso inaspettatamente vuoto, e nella curiosa scoperta della sua esistenza, si prova un brivido, come ricevere un saluto tra motociclisti, in cui viaggi veloce verso la prossima meta, godendo del paesaggio anziché attenderne il fine. Acerbo e inquieto l’intelletto programma ogni responso di ricevere, incammino di ciò che si da, o che ci si aspetta. Nel ricevere i doni non sono un campione, a causa del mio senso di inadeguatezza, figlio del confine dell’auto giudizio, quello per cui non merito. Ma anche il merito è figlio di uno schema e/o di una programmazione. Sentirmi ringraziare, allo stesso modo, mi imbarazza per il mio senso di impotenza di fronte a ciò che in realtà pensavo o speravo di raggiungere, alimentando l’impotenza che mi accompagna insieme alla prigionia, per non essere ciò che schematicamente auspicavo. Sono ad Imperia da quattro giorni, 50 quintali, cento euro di carburante, due litri di vino e una sola nuvola. Come al solito qui, oramai per la quarta volta in questa città, quasi sempre in questo periodo, vivo un paradosso antropologico che mi fa riflettere. Il fin troppo semplice e scontato “ma beato/a xxx”, si scontra con il messaggio che mi si pone, esattamente come lo scontro che ho avuto contro un bambino in bicicletta, senza feriti fortunatamente, ed io in monopattino, senza nemmeno cadere. Segno di una disattenzione altrui probabilmente, di ciò che stavo facendo io in quel momento per capire cosa rischiavo nel mentre, segno del “chi” era sulla bicicletta, a piedi nudi, persona che a malapena ci sta dentro in quella vita, come spesso accade a quella giovanissima età. Ogni cosa è uno schema, al quale o per il quale siamo ben programmati, con derivazione antica o relativamente recente, per cui interpretiamo anche i segni in un determinato modo. Gli esemplari non mancano, qui come dovunque, ma la curiosa diversità qui li rende più evidenti, in maniera direttamente proporzionale alla lunghezza del viaggio necessaria per arrivare qui. Quel fastidio che si prova nell’osservare quel tipo di specchio, quella simmetria a volte inversa a volte recante l’indizio di un passato sepolto o di cui si è voltato pagina e cambiato direzione. Con gli annessi e connessi del cambio di tempi, luoghi comuni, sociali, educativi, e distintivi. Un sodalizio sul “Grazie” che dovrei vibrare nei confronti di tutto ciò. E pe qualche esemplare in particolare in questa vita ho estrema difficoltà a sintonizzarmi energeticamente negli anfratti della riconoscenza, dal momento che quella spina nel fianco nel frattempo mi fa parecchio male, che siano all’interno del cerchio, sull’uscio, o dentro casa. Negli anni novanta, al Cocoricò, non ricordo se fosse entro il 1998, una campagna artistica interna recitava su bvi88glietti e corridoi la seguente frase, oggi così emblematica, che riporto a memoria e per intero, prima di cercarne un riferimento sul web: “Cosa vuoi fare a me, che non assomiglio a te”. Scopro poi che il prologo recitasse, “affanculo la quiete”. La riflessione mi suona semplice. La quiete è il buonismo di chi non osa, e che per altri versi indico come fossile, fermo nel tempo, ignaro del percorso di risveglio che io stesso dubito di avere ben intrapreso. Inutile chiedermi che cosa volesse da me ogni individuo sulla mia strada, da quel momento a oggi, se la risposta è sempre la stessa, e cioè, “guardati allo specchio in me”.

Ed a volte il carico ce lo mette la salute. E capisco come sia più problematico all’esterno che all’interno. Domani è il solstizio d’estate e come due anni fa comprendo come sia prolifico il periodo per scrivere. All’esterno c’è più impotenza che all’interno. Se ci si ammala si sa che non si è compiuto qualcosa per cui riflessologicamente l’organo ad esso collegato deteriora. Se si ammala qualcuno vicino a noi, almeno per quel che mi riguarda, la sensazione di impotenza è superiore, infinitamente, per scansare il messaggio a favore del meccanismo di sostegno. Troppo facile constatare, a quel punto tocca stare a vedere, come alcuni esemplari possano insegnarti proprio in quei momenti, l’attaccamento, la giustizia, la dignità, la costanza e la resistenza. Tutti stati di coscienza ed emozione esercitabili in dualità. Ma in sostanza si perde qualcuno, che sia un rapporto parentale diretto o lontano, che sia amicale o sentimentale, sono momenti dolorosi, quasi come un consumo interno, anche solo se osservato per conto di, già, per conto, spesso si dice così, quando poi ti rendi conto che si è trattato del meglio, e al di là di occasioni perse o non esercitate, che sono anch’esse frutto di altrui schemi o programmazioni, per non parlare della correttezza o meno dell’operato, idem. Eppure, demagogicamente, ogni giorno si contano nascite e dipartite, gioie e dolori, sollievi e termini. Termine del dolore nella nascita e nella morte. Inizio della sofferenza per chi rimane, come quel sasso sempre in tasca che ogni giorni senti presente nei pantaloni, e che in tanto tempo si assottiglia, a volte rimane in un pantalone che non indossi, ma dopo tanti anni, tanto tempo, lo troverai sempre, piccolissimo forse, a ricordarti quel dolore. Questo paragone l’avevo sentito moltissimi anni fa in un film che non riesco a ricordare nel titolo. Però l’idea è resa bene. E di conseguenza bisogna trovarsi di fronte al termine naturale per capire qualcosa, per avere l’ultimo momento per espiare. Ci sono anche momenti in cui, riuscendo a percepire un altro stato, si vedono o comprendono le “cose reali”, quasi come un anticipo di ciò che il carissimo Mirko aveva con tanto amore affascinato il mio cuore per provare a spiegare un ipotetico ciclo di rinascite, reincarnazioni continue come una fionda che con sempre più energia ti porta vicino a quella luce, che raggiungerai magari la prossima volta, ed il cui viaggio è stato davvero molto bello da vivere, nonostante tutto, nonostante l’ego, nonostante gli schemi, le programmazioni, la mente che “mente”, “quella stupida rabbia per niente, per tutte le cose che non te ne accorgi che non sono niente”, infinite distrazioni del meraviglioso viaggio e della grande opportunità. Riconoscerla, per sapere, conoscere di nuovo ciò che va necessariamente perfezionato, anche se si hanno a disposizione ancora pochi attimi.

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